domenica 6 febbraio 2011

Passeggio a Patraix

Sono le tre e mezza. Forse neanche oggi, silenziosa domenica limpida, è la giornata giusta per cominciare a leggere Pirenne, ma per sicurezza lo ripongo nello zaino, insieme alla felpa, il termos e le pipas. Mentre mi sistemo la sciarpa ancora penso a quale direzione prendere, sentendo una forte attrazione verso sud-ovest e tutta quella zona equidistante da ogni spazio vissuto negli ultimi mesi.
Nonostante l'ultima ora spesa a guardare il vuoto seduto sul divano, a riposare la testa e a coccolarmi coi raggi di un sole invernale, le orecchie sono ancora imbottite di gommapiuma. Ma camminando mi passerà; l'unica cosa che ho veramente voglia di fare è perdermi tra vie mai percorse, silenziosamente. Evito dunque fin dall'inizio le strade conosciute e comincio penetrando il quartiere di fronte a casa, attraverso quelle che inizialmente sono scorciatoie e che passo dopo passo si fanno itinerario. Le scorciatoie sono strane: sono irrimediabilmente relazionate con il percorso principale, una sorta di condanna. È sempre una seconda strada, qualcosa di complementare, che abbrevia i tempi, accorcia distanze, sostituisce quotidianità ma al prezzo di una certa scomodità. Un'eccezione insomma. Sbuco così sulle sponde della Ciudad de las artes y de la ciencia: costruzione che sbandiera una tristezza moderna, con un design alla Flight of the Navigator (1986) ma che a quanto pare attira curiosi ed esalta architetti. E basta questo per diventare simbolo di una città. Probabilmente qualcuno pensò le stesse cose ai tempi del Colosseo o della Tour Eiffel. Essendo poi installata, la città delle arti e della scienza, nei giardini del Turia, vanta una certa vicinanza a prati popolati di gente che corre, gioca, salta, balla, cammina, parla. Attraversare il letto del vecchio fiume per poi girarsi indietro e vedere questo panorama (con la ciudad de las artes alle spalle, sia chiaro) è qualcosa che provoca una strana serenità. Se poi hai ancora il cervello intontito dalla musica alta del giorno prima, finisce che ti ritrovi fermo con lo sguardo perso nel nulla (esatto, come mezz'oretta prima sul divano) a stimare la leggiadria di alcuni.
Forzandomi un poco, torno sui miei passi e prendo una delle vie più a sud. Già la presenza umana è scesa a livelli rasenti la desolazione. Una lunga e recente colata d'asfalto mi accompagna per una passerella tra le ultime zone abitate, i primi campi sparuti, ormai incolti in attesa delle edificazioni. Alcune sono già state innalzate: a qualche centinaio di metri, delle gru segnano i lavori in corso, mentre più vicino si moltiplicano i cartelli "se vende" su balconi e finestre. D'un tratto ricompare la vita: in fondo a destra ci sono due campi da basket contigui, circondati da panchine completamente affollate di gente d'ogni fascia d'età. Mi dicono che non c'è alcuna festa o ricorrenza.. immagino dunque che sia una sorta di piazza, solo che a disegnarla non è stato un progetto urbanistico ma una spontaneità umana. Guardandomi un po' attorno mi accorgo che è un quartiere abbastanza nuovo, con una viabilità quasi esagerata, campi da basket, calcio, tennis, aiuole e piccoli tappeti d'erba che ne definiscono i contorni. Mancano le piazze, certo. Ma ai giocatori di basket non sembra infastidire quello strano groviglio di incontri che il loro campo ospita. E alla la gente che chiacchiera e ride non sembrano infastidire quei pesanti rimbalzi e quegli ingombranti corpi scattanti che la loro piazza ospita.

Nessun commento: