mercoledì 20 aprile 2011

Una famiglia italiana

Lo scrive la stressa Franca Magnani: Una famiglia italiana non è né un saggio storico né tanto meno un saggio politico, bensì una semplice testimonianza. Ho riflettuto su questo termine perché, al di là della catalogazione letteraria - o forse ancora prima, la lettura di questo libro ha comportato, forse più di quanto non avrebbe potuto un puntuale saggio, un apprendimento altalenante tra storia e politica. Parlo di quello stesso apprendimento orizzontale che si ha attraverso la gente che vive affianco, o che condivide la vita nello stesso quartiere, nella stessa frazione, nella stessa città. O sulle stesse pagine. Insegnamento che si interiorizza non da cattedra a banco ma da persona a persona, attraverso le tracce di cui si fanno carico i racconti, le descrizioni, i riferimenti e le espressioni.
È su questo piano che si pone l'intero racconto, che da un lato restituisce al libro la sua caratteristica di diacronico spazio d'incontro tra scrittore e lettore, e dall'altra lascia trapelare qualcosa del percorso famigliare degli Schiavetti. Qualcosa che Franca lucidamente teneva a lasciare in eredità: la cifra antifascista che l'ha accompagnata per tutta la vita. Il ritiro all'estero, il francese e il tedesco, i discorsi a scuola e i discorsi a casa, le vacanze in Italia, la guerra in Etiopia e la situazione in Spagna: in tempi di regime, l'antifascismo aveva un nemico preciso; la grinta sapeva dove incanalarsi. Per la famiglia Schiavetti - e per tutti gli emigrati italiani antifascisti, la stessa condizione di esuli comportava una vita inventata e con modulazioni d'allerta, impegnata a preparare l'ambito ritorno attraverso la formazione culturale degli espatriati.
Poi d'improvviso, in una calda Zurigo di luglio, una voce fuoricampo: "L'hanno mandato via!". All'incredulità si sommano fulminei i volti dei prigionieri, degli esuli e dei morti "per mandarlo via". Parole attese, cercate e desiderate da tutta la vita, tanto da pensare che la vita, quella vera, sarebbe cominciata solo da queste parole in poi. Eppure il momento non sembra soddisfare le aspettative di un'intera esistenza. «Avevo imparato a conoscere e ad amare l'Italia attraverso la nostalgia e la dedizione ad essa dei miei genitori. Gli italiani che avevo frequentato in esilio non erano "gli" italiani. L'impatto con il paese reale mi presentò un'immagine diversa di quella che mi ero fatta. Da un lato, mi inebriavano la bellezza della terra, il clima, la luce, il calore umano della gente, lo spirito beffardo del popolino; dall'altro, avvertii un qualunquismo diffuso - non solo riguardo alla politica -, una mancanza di senso civico, una esaltazione della furbizia come metodo di vita, che prima mi stupirono, in seguito mi addolorarono, per ultimo mi indignarono.» Poi la guerra fredda, la Jugoslavia, il comunismo, i "magnacucchi", lo Stato-guida e, prima del rapporto di Kruscev, la difficile interazione tra la generazione dei vecchi antifascisti e quella seguente. La lenta comprensione che l'antifascismo non ha solo - ma già da sempre - a che fare con un dittatore in carne ed ossa da "mandare via", ma con una molteplicità di fascismi diffusi, di comportamenti, di attitudini, di condotte quotidiane. In tal senso, nel 1951, rivolto alla generazione che l'ha preceduto, Valdo Magnani poté scrivere: «Noi il fascismo l'abbiamo ereditato, compreso e sofferto nella logica del suo avvento, combattuto e vinto non per il gusto di una rivincita per la quale è buona qualsiasi forza, ma per un ideale sociale e umano che non è semplice 'anti', che non è un'altra dittatura, e che non accetta imposizioni di miti da nessuno.»

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